Cicloturismo e cammini: un antidoto all’overturism

Si sono concentrate in queste settimane alcune notizie sul mondo del turismo lento a piedi ed in bici, a partire con l’annuncio ad inizio marzo di un finanziamento di 10 milioni per lo sviluppo del cicloturismo in Appennino sulle tre direttrici delle ciclabili del Secchia (tratto Pescale-valico) e del Panaro (tratto Casona-Croce Arcana) e della storica Via Vandelli.

E’ dal 2013 con il progetto “Biciclette a Fiumi” (che coinvolgeva proprio gli argini del Secchia e del Panaro) che cerchiamo di spiegare le potenzialità di questo movimento: ora vediamo finalmente una grande consapevolezza dell’importanza di queste infrastrutture.

Infatti, il mondo dei viaggi attivi è in grossa evoluzione e lo testimoniano gli oltre 20.000 visitatori alla recente Fiera del Cicloturismo a Bologna, od il grande successo di percorsi nati dal basso come la “Via Vandelli” e la “Via degli Dei”.

Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova anche lo scorso weekend al compleanno della Ciclovia del Sole, una infrastruttura che pur ancora incompleta è già una solida realtà capace di vivacizzare i territori attraversati.

Anche perché l’altra notizia fresca è quella proveniente dalle Cinque Terre, dove sono esplosi i problemi ben conosciuti del sovraffollamento turistico (overturism, come è stato definito dall’Organizzazione Mondiale del Turismo): un impatto eccessivamente negativo della qualità di vita percepita dei cittadini e delle esperienze dei visitatori.

Non si corrono questi problemi con camminatori e pedalatori, perché viaggiano in piccoli gruppi, prediligono mete minori a contatto con la natura, spesso fuori dalle calde stagioni estive, apprezzano le piccole attività economiche e culturali locali. Tra l’altro, viaggiando con bagagli leggeri, spendono molto sul territorio perché hanno bisogno di tutto.

E non si può parlare nemmeno di bolla effimera: da anni i tour operatori ci dicono che i viaggiatori stranieri hanno l’Italia in cima alle loro liste dei desideri appena troveranno tracciati sicuri e servizi diffusi. Ed è un numero in potenziale crescita esponenziale grazie alla diffusione delle bici elettriche.

Per i nostri territori è una occasione formidabile, che va tra l’altro a sopperire le difficoltà crescenti ed inarrestabili del prodotto neve: nelle scelte bisognerà avere come stella polare le esigenze del viaggiatore, senza farsi sviare da interessi locali. FIAB con la sua decennale conoscenza di questi fenomeni è a disposizione di tutte le amministrazioni per consigliare e supportare.

Nei panni di un datore di lavoro …

Migliorare l’efficienza sul posto di lavoro è semplice come passare da A(uto) a B(ici)

Tra chi chiede maggiori investimenti in ciclabilità, dovrebbero figurare ai primi posti i datori di lavoro. Diversi studi hanno dimostrato che i dipendenti che arrivano al lavoro in bicicletta sono di buon umore, energici e tonici, sembrano riposati e stanno focalizzati su quello che hanno da fare, sono svelti ed efficienti, hanno un’attitudine positiva verso i colleghi e il lavoro e si ammalano raramente.

Questo perché per andare in bici al lavoro non si resta mai imbottigliati nel traffico ad imprecare, si fa un moderato movimento fisico che secondo l’OMS porta ad una riduzione del 25% dei rischi di insorgenza di disturbi cardiovascolari e addirittura riduce l’incidenza di alcuni tipi di cancro. Tramite le endorfine che si liberano, pedalare ogni giorno migliora l’umore, la qualità del sonno notturno e la concentrazione, mentre l’attività fisica e i livelli più alti di vitamina D dovuta alla breve esposizione quotidiana al sole rinforzano il sistema immunitario.

Non tutti i lavoratori hanno le condizioni per poter cambiare le proprie abitudini: c’è chi abita troppo lontano dal lavoro o chi si può muovere solo in auto. Ma nonostante tutto c’è una grande parte di lavoratori che abitano a non più di 5-7km dal luogo di lavoro, stanno otto ore nello stesso stabile, mangiano velocemente sul posto a pranzo e tornano direttamente a casa la sera. Quanti ne potete contare tra le vostre conoscenze?

Tutti questi pendolari possono essere facilitati innanzitutto da una città a misura di bicicletta, ma anche da tanti piccoli accorgimenti che gli stessi datori di lavoro possono mettere in atto. Come testimoniano le imprese aderenti a CIAB (il Club delle Imprese Amiche della Bicicletta) è sufficiente attrezzare un parcheggio sicuro per le bici (a seconda della possibilità e dei bisogni si va da box coperti e chiusi con lucchetto, oppure uno spazio in magazzino), e poi uno spogliatoio con armadietti ed un lavabo per rinfrescarsi, o una doccia. Si può investire maggiori risorse in una flotta aziendale di bici oppure offrire ai dipendenti uno sconto sull’acquisto di una due ruote elettrica.

Tra l’altro i lavoratori in bicicletta non utilizzano lo spazio destinato al parcheggio auto, lasciando più posto per i colleghi che non hanno alternative all’auto privata per muoversi.

Insomma, un circolo virtuoso che fa bene ai lavoratori, alle imprese ed alle città in cui risiedono.

Alberi e ombra: un valore per pedoni e ciclisti. Ed automobilisti.

L’ombra è una funzione primaria dell’albero e permette una riduzione della temperatura e della radiazione, soprattutto in estate. In città il valore dell’ombra riguarda tutte le zone adatte per muoversi ed intrattenersi come i centri commerciali, le scuole, zone produttive, edifici pubblici e privati ma anche negli spazi inospitali come i parcheggi: chi non preferisce un parcheggio all’ombra?

Gli alberi sono indispensabili e rappresentano un valore aggiunto dal punto di vista estetico, della salubrità ed attrattività di un luogo: ne sentiamo il bisogno dappertutto, a maggior ragione in un viale alberato e ben ombreggiato che incentiva la mobilità attiva di chi si sposta a piedi ed in bicicletta: così anche ad ogni semplice spostamento si aggiunge il piacere di stare in un ambiente il più possibile naturale, bellezza per gli occhi e benessere fisico.

Gli alberi e le altre piante, come arbusti e siepi ci danno l’ossigeno fondamentale per la nostra vita: questa presenza risulta particolarmente efficace nelle strade tra le case e permette tra l’altro di conservare terreni più freschi che possono ritenere il sempre più limitato apporto di acque piovane per l’alimentazione delle piante stesse e delle falde idriche. E con carreggiate più strette, una delle opportunità che ci offrono le città 30 è anche quella di recuperare terreni permeabili desigillando l’asfalto in eccesso.

Ed ancora gli alberi e gli arbusti, con i loro fiori e frutti, sono imprescindibili per mantenere la biodiversità sia vegetale che animale, preziosa per la nostra stessa vita.

Tra i tanti motivi per conservare e incrementare la presenza di alberi e siepi nelle strade c’è anche il fatto che incentiva le persone a stazionare nelle strade e nelle piazze in cui risiedono, senza essere obbligati a cercare un parchetto per godere di questi vantaggi, elevando la sicurezza intrinseca di luoghi che, se non vissuti, diventano teatro di episodi tipici delle “terre di nessuno”.

E visto che la crescita di un albero richiede anni, è importante conservare il patrimonio arboreo pubblico esistente con interventi sulle piante solo qualora sia strettamente necessario, in piante malate o pericolanti, e col minimo lavoro necessario. E’ vero che radici, foglie e rami possono rappresentare un pericolo per chi cammina o pedala, ma questo non può essere una scusa per togliere verde, ma un incentivo a curarlo al meglio.

Le parole contano

Un codice di condotta per i giornalisti che si occupano di collisioni sulle strade: l’idea è dell’Università di Westminster e nasce dalla convinzione che una copertura giornalistica inadeguata può creare preoccupazioni ingiustificate, sviare l’attenzione dalle cause reali del problema, oscurare le soluzioni e persino generare aggressività.

La prima indicazione riguarda la massima accuratezza nel riportare quello che si sa della dinamica dei fatti. Si suggerisce poi di non usare il termine “incidente”, termine legato al caso, ma “collisione” o “scontro”; si chiede di menzionare le persone e non i veicoli (“un automobilista” e non “un auto”), per non nascondere dietro oggetti inanimati le responsabilità individuali. Così pian piano si costruisce una sensibilità che permette di evitare certi messaggi impliciti e pericolosi che possono inavvertitamente insinuarsi nel modo di riportare una notizia.

Un esempio dalla cronaca recente. “Cade in bici, un’auto lo travolge”: se leggiamo un titolo di questo tipo pensiamo ad un ciclista distratto, o inesperto, che avrebbe dovuto stare più attento. Nell’occhiello però si chiarisce “la portiera si apre all’improvviso, il rider su una bicicletta elettrica non riesce ad evitarla e cade a terra: in quel momento passa un’auto che lo travolge.” Come può una portiera “aprirsi” da sola? Ci deve essere stato qualcuno che l’ha aperta “all’improvviso”: nascondere la responsabilità dell’automobilista incauto lo assolve, invece prima di aprirla avrebbe dovuto controllare che nessuno stesse sopraggiungendo. Il rider è su una “bicicletta elettrica”, si legge, e “non riesce ad evitarla”: siamo così portati a pensare che, data la bici elettrica, il rider andasse probabilmente troppo forte, tanto che non è “riuscito” ad evitare quella portiera spalancata (lasciando intendere che invece avrebbe potuto “riuscirci”). Così, magari senza volerlo, chi scrive finisce per suggerire che il ciclista abbia avuto un buon grado di colpa. Infine, a sopraggiungere e travolgerlo è “un’auto”: di nuovo si parla del veicolo e non dell’attore umano, cioè un automobilista che non manteneva una adeguata distanza di sorpasso del ciclista (perché se fosse stata adeguata non l’avrebbe travolto anche in caso di caduta). Di nuovo il conducente del veicolo non viene menzionato e scompare agli occhi del lettore insieme alla sua responsabilità nell’accaduto.

Le parole contano: condizionano la psicologia del lettore e di conseguenza il comportamento, e vanno usate con estrema consapevolezza.

“Uomini al volante, pericolo costante”

“Uomini al volante, pericolo costante”
Le donne sono più prudenti alla guida e meno coinvolte in sinistri

“Donne al volante, pericolo costante”: sarà vero il vecchio adagio? Dati alla mano, si scopre facilmente che è proprio il contrario! In Svizzera, nel 2019 il Touring Club ha rilevato che le conducenti donne sono state responsabili di un quarto degli incidenti, senza eccezioni, in tutti i cantoni. Un trend confermato da una indagine effettuata in Belgio dal Vias Institute e riportata dal magazine francese AutoPlus, che ha mostrato che le donne al volante sono percentualmente meno coinvolte in incidenti, e hanno meno spesso torto. Quando sono coinvolte, si tratta di incidenti meno gravi rispetto alle loro controparti maschili: le donne rappresentano il 44% di chi ha conseguenze lievi e il 34% di chi subisce danni gravi. Non solo, ma per il Vias Institute ci sono 10 decessi per 1.000 lesioni corporali per incidenti con una donna al volante, rispetto ai 19 degli automobilisti maschi: quasi la metà. In Europa nel 2022, tra le persone responsabili di aver causato incidenti stradali l’84% erano uomini e sempre gli uomini rappresentavano il 93% dei conducenti ubriachi coinvolti in un incidente.

Dal 2012, per una sentenza della Corte di Giustizia Europea, questa minore pericolosità delle donne al volante non può più essere riconosciuta dalle compagnie assicurative con tariffe inferiori alla controparte maschile. Ma a cosa è dovuta?

I sinistri stradali sono causati perlopiù da velocità eccessiva, disattenzione o guida in stato di ebbrezza, e una nuova campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale in Francia punta il dito sul contributo della mascolinità tossica a questi comportamenti. Le auto sono da sempre simbolo di virilità e status per gli uomini e c’è un pregiudizio radicato secondo cui gli uomini hanno istintivamente dimestichezza alla guida. Così si genera nel guidatore uomo una eccessiva spavalderia nelle situazioni di pericolo: la velocità, i sorpassi pericolosi o la certezza di “reggere l’alcol” diventano i segni di competenza maschile. Eppure, paradossalmente, sono proprio gli insicuri che tendono a mascherare la loro mancanza di autostima dietro comportamenti da “macho”.

Quindi, donne al volante, grazie di cuore in nome di tutte le vite che ogni giorno risparmiate sulle strade con la vostra maggiore prudenza, e fate attenzione: se incontrate un uomo con un SUV enorme, che fa lo spavaldo, alza il gomito e spinge troppo sull’acceleratore “tanto lui ha il pieno controllo”, potrebbe essere pericolosamente affetto da maschilismo tossico. State in guardia.

Città 30 subito: basta morti in strada

E’ partita la campagna nazionale per la legge “città 30”

E così domenica scorsa siamo partiti con una campagna nazionale sulla sicurezza stradale che abbiamo chiamato “Città 30 subito, basta morti in strada” e lo abbiamo fatto con un flashmob in decine di città italiane andando a proteggere i passaggi pedonali.

E perché mai una associazione di ciclisti dovrebbe preoccuparsi di passaggi pedonali? Semplice, perché la pedonalità è la forma primaria di movimento, quella che (quasi) tutti abbiamo innata senza bisogno di nessun mezzo meccanico o motorizzato: prima o poi nella vita siamo tutti pedoni. Anche quelli che si dichiarano indefessi automobilisti prima o poi attraversano la strada per andare al bar.

Forse è per questo che esistono i sindacati degli automobilisti, quelli dei ciclisti, quelli degli utenti del trasporto pubblico ma non quelli dei pedoni: perché ognuno di noi dovrebbe aver accesso al suo status di bipede senza bisogno di lottare per veder rispettato questo diritto naturale.

Eppure, solo a gennaio in Italia sono stati uccisi oltre 51 pedoni, di cui la metà over 65, 3 under 18 sulle strisce pedonali e ben 7 mentre andavano a gettare l’immondizia (dati ASAPS). Ora, escludendo che gli anziani in ciabatte siano spericolati suicidi, ne possiamo dedurre solo che la violenza stradale motorizzata è fuori controllo, perché ovviamente nessuno è stato ucciso da una bici o da un monopattino.

Non esistono facili soluzioni, ma possiamo partire da regolare la velocità, il minimo comune denominatore che quando non è la causa diretta dell’impatto è quel fattore che ne moltiplica gli effetti nefasti. Per questo bisogna concretizzare subito il principio supportato da OMS, Parlamento Europeo e da decine di esperienze e casi di studio, che laddove vivono le persone la velocità massima non dovrebbe essere mai superiore a 30kmh.

Questa misura preliminare si porta dietro progressivamente nel tempo una serie di conseguenze ed opportunità: minor velocità vuol dire carreggiate più strette e meno parcheggi, più spazi per ampi pedonali, ciclabili sicure, corsie riservate per trasporto pubblico, verde in strada, panchine, playground per ragazzi.

Una “città 30” è più bella, vivibile, silenziosa, sicura, pulita, e tutela tutti i “ragazzi” che vogliono essere indipendenti dagli 8 agli 80 anni: dovrebbe quindi essere supportata in maniera trasversale, anche da quei cittadini incalliti che vogliono continuare ad andare al bar in auto. Possono continuare a farlo, ma a 30kmh.

Errare è umano, le infrastrutture devono proteggere.

“Basterebbe che tutti rispettassero le regole” è la prima risposta che riceviamo quando denunciamo la pericolosità dei comportamenti stradali. Sembra una deduzione di buon senso, ma è quanto di più banale si possa affermare. Sarebbe un po’ come sostenere che basterebbe smettere di rubare, truffare, uccidere per non avere criminalità.

Il problema è che noi umani sbagliamo, sempre, soprattutto in strada. A volte consapevolmente, perché convinti che le regole siano sbagliate (“50kmh sono un limite obsoleto con le auto attuali”), o perché sicuri che la tecnologia ci possa salvare (“ho un SUV, cosa vuoi che mi succeda a 90kmh”). Altre volte sbagliamo inconsapevolmente, pensando di poter guidare spensierati come nelle pubblicità in cui le auto, sempre sotto il nostro perfetto controllo, sfrecciano in città vuote senza ostacoli.

Altre volte è la distrazione la causa scatenante: distrazioni manuali (maneggiare sigarette, trucchi, bere o mangiare), distrazioni visive (usare un cellulare, guardare il navigatore, cercare qualcosa) e perfino distrazioni cognitive (pensare a problemi, ripassare mentalmente un discorso, organizzare la giornata). Insomma, anche quando guardiamo non sempre vediamo realmente fuori dall’abitacolo.

Anche le persone a piedi o in bicicletta non sono esenti dagli stessi errori: si chiacchera con un amico pedalando in bici o si attraversa un pedonale con il rosso per fare prima. Non per questo i nostri figli imprudenti, gli amici distratti o i nonni incerti meritano una condanna a morte per i loro sbagli.

La soluzione ai problemi di violenza stradale deve passare da regole ed infrastrutture che limitino automaticamente gli effetti di questi sbagli. Come è ormai universalmente riconosciuto, nei centri abitati bisogna subito ridurre la velocità a 30kmh: si determina così un dimezzamento degli scontri e, quando lo scontro c’è, un abbattimento del 80% dei danni. Per indurre i guidatori a rispettare questi limiti (anche quando sono distratti) ci vengono in aiuto le infrastrutture di “traffic calming” che sono codificate da anni. Nei paesi nordici, si dice addirittura che se c’è bisogno di un segnale (di limite velocità, di precedenza) allora c’è un problema di progettazione.

E noi, quanta altra violenza siamo disposti a tollerare prima di riconoscere che le regole vigenti e le strade esistenti sono inadeguate a proteggere vite umane?

E la bici dove la metto?

Incentivare la mobilità ciclabile richiede una rete di parcheggi bici adeguati e sicuri

Come qualsiasi automobilista ben sa, per spostarsi agevolmente in auto non sono sufficienti le strade, ma occorre che ci sia la possibilità, arrivati a destinazione, di lasciare l’auto in un luogo apposito, non troppo lontano: il tanto agognato parcheggio.

La necessità di predisporre luoghi di sosta per gli autoveicoli, come parte integrante delle infrastrutture dedicate alla mobilità automobilistica, è stata così sentita nel periodo del boom del mercato, che nel 1968 un decreto interministeriale introdusse addirittura uno standard minimo di 2,5 metri quadri di spazio da destinare al parcheggio per ogni abitante. Il decreto è stato poi modificato nel 1989, con l’introduzione di un obbligo per le nuove costruzioni di riservare ai parcheggi almeno un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione. Una delle prime azioni per disincentivare l’uso dell’auto privata invece sarebbe proprio la riduzione del numero dei parcheggi in città, misura che in Italia può essere applicata solo limitatamente proprio per via degli standard minimi di parcheggio.

D’altra parte, poter lasciare il proprio veicolo in un luogo apposito, non troppo lontano dalla destinazione, è un’esigenza anche di chi si sposta in bici: uno stallo adeguato alle bici deve dare la possibilità di legare il telaio (e non solo una ruota) a una struttura fissa per evitare furti, ed essere coperto dalla pioggia. Eppure questa necessità resta inascoltata.

La sproporzione tra i posti auto e le rastrelliere “a scolapiatti” fuori dai supermercati la dice lunga: tra l’altro, sono pure poco sicure perché permettono di legare solo una ruota, e scomode perché non danno spazio sufficiente per caricare la spesa nelle borse posteriori.

A Modena, stalli adeguati scarseggiano anche di fronte a farmacie, uffici postali, uffici pubblici, mentre i depositi vicino alle stazioni ferroviarie sono sottodimensionati, e ci sono lunghe liste di attesa: meno di 200 posti bici per una città di 185.000 abitanti, mentre in Olanda a Delft (101.000 abitanti) il parcheggio bici in stazione conta 5000 posti (coperti). “Non siamo in Olanda” ma promuovere la mobilità sostenibile passa anche da qui.

Prendereste volentieri l’auto se ci fossero zero parcheggi nelle vicinanze della vostra destinazione? No, vero? E allora perché dovrebbe essere diverso per la bici, che rischia pure di essere rubata se non c’è uno stallo sicuro?

C’è ARIA nuova in città

ARIA è una rete di associazioni attiva in tema di ambiente ed inclusione sociale.

Dopo qualche mese di incontri 15 tra associazioni e comitati di Modena e provincia hanno deciso di unire le loro competenze per creare la rete ARIA, in grado di essere una forza propositiva nell’ambito delle politiche per la tutela dell’ambiente e della salute e per la promozione di un’economia inclusiva e solidale.

L’atto simbolico della firma del manifesto comune si è svolto sabato scorso all’OvestLab dove le associazioni fondatrici si sono presentate di fronte ad un folto pubblico che ha riempito il capannone. Anche FIAB fa parte della rete, e non potrebbe essere altrimenti visto che l’ambiente è nel nostro “oggetto sociale” e che la bici è da due secoli una delle invenzioni che più di tutte ha avuto un ruolo nella emancipazione ed inclusione di diverse fasce di popolazione: pensiamo solo a quello che ha significato per l’emancipazione femminile o per la mobilità di persone a basso reddito.

La rete ha deciso di lavorare su tavoli tematici a cui ogni associazione può portare le sue competenze ed esperienza, e nel 2023 sono stati identificati due argomenti: la mobilità sostenibile e la filiera alimentare. Due criticità evidenti anche sul territorio modenese, dove la mobilità privata e gli allevamenti intensivi rappresentano una fonte di preoccupazione.

Le proposte, le discussioni e le attività di ARIA mirano ad avere una base scientifica riconosciuta, e formulate con un linguaggio propositivo ambiscono ad avere una ricaduta positiva sul territorio, sensibilizzando, coinvolgendo ed includendo tutti i cittadini. Per questo la rete è aperta all’ingresso di ogni altra entità che voglia condividere gli stessi valori e progetti.

Come FIAB intendiamo riportare al centro la discussione sulla funzione dei luoghi comuni, perché le strade e le piazze sono sempre stati gli spazi pubblici per antonomasia in cui le persone si incontrano, si riconoscono, litigano ma anche commerciano e stabiliscono nuove relazioni, mentre negli ultimi decenni per prioritizzare il traffico automobilistico abbiamo progettando tutto lo spazio per fluidificarlo, e siamo riusciti a trasformare luoghi di incontro tra vicini di casa in corsie di transito per sconosciuti.

In ogni città che al mondo ha intrapreso con successo questi cambiamenti, è stato necessario raccontare ad ogni cittadino i tanti vantaggi che ne derivano, e questo è possibile solo con l’azione convinta di tante realtà e cittadini che ARIA si propone di rappresentare.

Bici e trasporto pubblico: alleati o concorrenti?

Nei nostri recenti articoli abbiamo cercato di spiegare come le “città 30” possano favorire la mobilità attiva pedonale e ciclabile.

Però in tutto questo ragionamento ci siamo dimenticati il trasporto pubblico. Ce lo ha ricordato una nostra amica commentando “credo che l’unica soluzione sia incentivare i mezzi pubblici, in modo che la gente lasci in garage l’auto”, lasciando trasparire una convinzione che in fondo la mobilità ciclabile non sposterà mai tanta gente quanto può fare un trasporto di massa.

Ma bicicletta e trasporto pubblico non sono tra di loro alternativi, anzi il loro uso combinato genera la maggiore efficienza possibile nella mobilità quotidiana. La bici, infatti, è per natura un mezzo privato che permette ad un singolo cittadino di scegliere punto di inizio ed arrivo, orario di partenza e tragitto da seguire. Mentre per definizione il trasporto pubblico, per quando efficiente e diffuso sia, ha orari e percorsi codificati.

Quindi può capitare che dobbiamo fare pochi chilometri e che troviamo più comodo prendere direttamente la bici dal garage, ma se dobbiamo andare fuori comune possiamo raggiungere la stazione a piedi o in bici e poi prendere un mezzo pubblico. E le scelte possono essere influenzate anche da altri fattori come il meteo, che può sconsigliarci di usare la bici ed andare direttamente alla fermata del bus.

In questo ragionamento da qualche anno si è infilato anche il monopattino (che necessita delle stesse infrastrutture delle bici) il cui successo è dovuto a diversi motivi, uno dei quali è che può essere semplicemente caricato su bus e treni e portato in ufficio. Insomma, il classico strumento che ci permette di fare l’ultimo miglio di un lungo tragitto di pendolarismo.

Non esiste un’unica soluzione ai problemi di trasporto di milioni di persone con esigenze diverse, e l’unica ricetta possibile è quella di ripensare le strade in modo che siano adatte a tutti i mezzi di trasporto. Perché l’errore capitale del secolo scorso è stato quello di dedicare tutto lo spazio ad un unico mezzo, l’auto privata, che pur avendo innegabili vantaggi di autonomia personale è un oggetto che divora enormi quantità di spazio lasciando agli altri solo riserve anguste ed insicure.

Le stazioni ferroviarie olandesi, con le loro migliaia di parcheggi bici protetti sempre pieni, sono lì a dimostrare che bici e mezzi pubblici sono alleati che vanno entrambi sostenuti per abbattere la dipendenza dall’auto privata.