Violenza stradale: non freddi numeri, ma nomi e cognomi.

Ai primi giorni di agosto, all’osservatorio di ASAPS risultano 141 decessi tra i ciclisti: di questi quasi la metà (68) erano over 65, ed in 14 casi i conducenti sono fuggiti. Nei primi sei mesi del 2025 è stato rilevato un incremento di ciclisti morti del 21,8% rispetto al 2024.

Freddi numeri? Nemmeno per sogno, andiamo a conoscere solo quelli dell’ultima settimana.

Tre persone travolte a Terlizzi in Puglia appartenenti alla sezione locale dell’Avis, erano molto conosciuti nella comunità di Andria. Antonio Porro, 70 anni, imprenditore fondatore di una torrefazione. Sandro Abruzzese, 30 anni, lavorava come assicuratore, mentre Vincenzo Mantovani, 50 anni, titolare di un’officina lascia una moglie e due figlie. Dopo una settimana di lavoro e volontariato, il gruppo era solito pedalare la domenica: sono stati travolti da un ragazzo 30enne che stava per raggiungere alcuni amici a Bari per le vacanze.

Dal sud ci spostiamo al nord per raccontare di uno scontro stradale che ha spezzato la vita di Deborah Rolando, 48 anni, un compagno e 3 figli di 18, 16 e 15 anni, ed era la titolare del bar «Vecchio mulino» a Crevoladossola dove viveva sopra il locale da oltre dieci anni. Come quasi tutti i giorni era in sella alla sua bici e, secondo le prime ricostruzioni, è stata travolta da un 23enne alla guida di furgone impegnato in una manovra di sorpasso di tre auto.

Ecco, su quelle bici non ci sono radical chic che non hanno nulla da fare di meglio, ma persone normali, che lavorano, pagano le tasse, contribuiscono al benessere della comunità e che hanno tutto il diritto di occupare la strada, anche solo per divertimento, con il mezzo che preferiscono.

Purtroppo, anche nei commenti social alla tragedia di Terlizzi, i ciclisti uccisi vengono derisi, umiliati, insultati. Ci tocca ancora sentire che se la sono cercata, che la strada è di chi lavora, che i ciclisti fanno solo perdere tempo, quando basta leggere le cronache per rilevare che spesso gli investitori non avevano nulla di più “importante” da fare di chi è stato investito (anzi spesso è il contrario).

È quindi necessario ribadire che la strada è di tutti, e che in questo paese rivendichiamo la libertà di scegliere il mezzo con cui spostarci senza rischiare ogni giorno la vita. Perché invece sulle strade italiane vige la legge del più forte (o il Codice della Strage): è una emergenza nazionale che ci interessa solo quando scopriamo che sono anche amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro. E allora, poi, scatta l’empatia. “Una tragedia. RIP in pace, Angelo”.

Zero morti sulla strada: non è più un’utopia

Mentre Modena conquista il triste primato regionale di pedoni investiti mortalmente, la capitale finlandese, Helsinki, festeggia un risultato storico: zero vittime della strada in un anno intero. Un traguardo che per una città di quasi 700.000 abitanti non è frutto del caso, ma di una strategia precisa, coraggiosa e, soprattutto, replicabile. Una lezione utile per la nostra città, da studiare con la massima attenzione, proprio mentre, come parte della rete “Modena 30”, chiediamo con massima urgenza il limite dei 30 km/h nelle aree attorno alle scuole

Il segreto del successo di Helsinki non risiede solo nell’abbassare i limiti di velocità: 30 km/h in quasi metà delle strade, specialmente nelle aree residenziali e vicino alle scuole. La vera rivoluzione è stata un approccio “data-driven”: la città si è dotata di una rete di sensori, ha analizzato sistematicamente i dati sugli incidenti e ha usato strumenti predittivi per capire dove e perché le regole non venivano rispettate. Sono state utilizzate mappe di rischio e sondaggi sulla sicurezza percepita per pianificare le priorità.

Grazie a questa profonda conoscenza, sono state modificate le infrastrutture. Strade volutamente più strette, alberature e un design urbano più complesso costringono chi guida ad abbassare la velocità in modo naturale. Le intersezioni sono state riprogettate per proteggere i più vulnerabili – famiglie con bambini, anziani, chi si sposta a piedi o in bici – con attraversamenti rialzati e chiara segnaletica visiva. Inoltre, il trasporto pubblico è stato potenziato per ridurre il numero di auto in circolo. Vengono coinvolti anche cittadini, associazioni e istituzioni in processi partecipativi e campagne di educazione stradale.

Si è passati così da una mera logica punitiva a una progettuale, rendendo la sicurezza una conseguenza di un intero sistema città che ha un effetto calmante sulla guida.

L’esempio di Helsinki dimostra che “Vision Zero”, obiettivo dell’Unione Europea di zero morti sulle strade urbane per il 2050, non è un’utopia. Modena ha già uno strumento per iniziare questo percorso: il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile (PUMS). È proprio all’interno del PUMS che questa visione può e deve essere integrata. Ampliando gli interventi settoriali, il Comune può adottare un approccio sistemico come quello finlandese: utilizzare i dati non solo per monitorare, ma per progettare attivamente la sicurezza, modificando le strade e lo spazio pubblico per salvare vite. Modena ha tutti i numeri per invertire la rotta e mettere al centro la vita delle persone, per una città più sicura, sana e vivibile per tutti.

Pedoni investiti a Modena: “Basta morti sulle strade. È ora che la città cambi passo”

La notizia del tragico investimento di un signore mentre attraversava sulle strisce pedonali in via Morane era arrivata proprio mentre, come associazioni impegnate per la sicurezza stradale, stavamo analizzando l’ennesimo, drammatico dato presentato dall’Assessora Regionale alla Mobilità, Irene Priolo: Modena e la sua provincia detengono la maglia nera in regione per numero di pedoni investiti, con un aumento di incidenti e feriti in netta controtendenza rispetto al resto dell’Emilia-Romagna [1].

Impariamo oggi che quel signore si chiamava Lanfranco Bergamini, aveva 78 anni ed è morto in ospedale dopo un’agonia di diversi giorni a causa di quello stesso scontro.

Dietro ai freddi numeri che lasciano spesso indifferenti e a cui siamo purtroppo abituati, ci sono persone con nome e cognome, le loro famiglie e i loro cari a cui vanno le nostre condoglianze, ma di fronte a questi numeri non si può non andare oltre al dolore per capirne le cause e trovare soluzioni vere e durature a problemi sistemici.

Questi dati seguono di pochi giorni la morte di Maria Sivio, un’altra persona anziana investita a Castelnuovo Rangone. Una terribile sequenza che conferma ciò che denunciamo da anni: non sono fatalità, ma tragedie annunciate, frutto di un modello di città che continua a privilegiare la velocità delle auto a scapito della vita delle persone.

Mentre altre città come Bologna invertono la rotta con la ‘Città 30’ e vedono calare gli incidenti, Modena peggiora, collezionando una tragica maglia nera per numeri di morti (in particolare persone a piedi) generando un costo sociale di 84.940.228 euro pari a 462 euro pro capite, contro i 393 di Bologna. Non è più tempo di timide promesse, ma di un’azione decisa e provata: rendere Modena una Città 30 per salvare vite e creare spazi più vivibili per tutte le persone.

Le cause degli scontri stradali sono quasi sempre le stesse, come confermano i dati ISTAT: eccesso di velocità e distrazione alla guida, aggravate da un’infrastruttura stradale che non protegge a sufficienza gli utenti più vulnerabili.

Il nostro sentimento, oggi, è un misto di dolore e rabbia, perché constatiamo la mancanza di una reale percezione della gravità sociale di questo problema. Basta con le scuse: non vogliamo più sentirci dire che mancano le risorse o che la soluzione sia solo “educare gli utenti”. Non è più accettabile, mentre le persone rischiano la vita per il semplice gesto di attraversare una strada. Servono azioni coraggiose che dipendono unicamente dalla volontà politica locale.

Proponiamo due interventi prioritari:

  1. Un piano straordinario per la sicurezza degli attraversamenti
    Chiediamo di destinare ogni risorsa disponibile a un programma di messa in sicurezza di tutti gli attraversamenti pedonali, partendo da quelli vicini a scuole, parchi, ospedali e centri per anziani. Gli interventi devono includere:

    • Attraversamenti rialzati
    • Chicane
    • Marciapiedi avanzati (“orecchie”)
    • Isole salvagente e spartitraffico
    • Segnaletica orizzontale e verticale ad alta visibilità e durabilità
  2. Controlli sistematici e costanti
    La Polizia Locale deve essere impiegata in modo mirato e continuativo, 365 giorni all’anno, con pattuglie dedicate a:

    • Verificare il rispetto della precedenza ai pedoni sulle strisce, sanzionando chi non rallenta o addirittura non si ferma e chi parcheggia in prossimità, ostacolando la visibilità.
    • Verificare il rispetto dei limiti di velocità, in tutte le strade incluse, le zone 30 e davanti alle scuole.
    • Reprimere l’uso del cellulare alla guida, una delle principali cause di distrazione.
    • Controlli frequenti su auto in sosta irregolare che occupano marciapiedi, ciclopedonali o ciclabili, creando ostacoli per gli utenti più deboli.

Le campagne di sensibilizzazione spot non bastano più. Chiunque guidi sa quanto queste norme di civiltà siano sistematicamente violate, a fronte di una repressione del tutto inadeguata alla dimensione del fenomeno.

L’obiettivo a lungo termine deve essere quello di avere strade urbane che costringono a moderare la velocità, non che lo permettono soltanto. Per questo chiediamo:

  • L’istituzione del limite di 30 km/h sulla quasi totalità della rete stradale urbana, seguendo l’esempio virtuoso di Bologna [2], che ha già registrato ottimi risultati in termini di riduzione di scontri, morti e feriti.
  • Come primo passo, non più rimandabile, proponiamo una sperimentazione immediata per la creazione di “Aree Scolastiche Sicure”. Questa misura prevede l’introduzione e l’effettivo controllo del limite di velocità a 30 km/h e attraversamenti rialzati in un’area estesa per almeno 500 metri attorno a tutti gli istituti scolastici. Tale provvedimento si affiancherebbe e rafforzerebbe le “zone quiete scolastiche” – ovvero le chiusure al traffico motorizzato almeno negli orari di entrata e uscita, già previste dal Codice della Strada – con lo scopo di trasformare i percorsi casa-scuola in tragitti sicuri, incentivando la mobilità attiva e l’autonomia di bambini e ragazzi.

Chiediamo infine che il Comune di Modena adotti formalmente la “Vision Zero” come principio guida delle sue politiche sulla mobilità. L’unico obiettivo accettabile è zero vittime sulla strada. Il Comune deve investire in una grande campagna culturale per promuovere un nuovo patto di convivenza stradale. E le associazioni di Modena 30 sono pronte a collaborare.

Perché la sicurezza di persone che si spostano a piedi, in bicicletta o coi mezzi pubblici non è una questione di parte, ma il principale indicatore della civiltà di una comunità.

Fonti:
[1] https://mobilita.regione.emilia-romagna.it/notizie/attualita/sicurezza-stradale-scende-il-numero-di-vittime-e-feriti-in-emilia-romagna-22-e-3-negli-ultimi-cinque-anni/documenti-allegati/relazione-incidenti-2024.pdf/@@download/file

[2] Bologna Città 30 Città 30, i dati dei primi 6 mesi del 2025 | Comune di Bologna

[3] Vision zero: a Helsinki un anno senza morti sulle strade: https://yle.fi/a/74-20174831

Claudio Piani: da Milano all’Himalaya. Cronaca di un viaggio lungo dieci anni

“Non mi sono svegliato una mattina dicendo ‘Vado in Nepal in bicicletta’”. Con queste parole, Claudio Piani smonta subito il mito dell’eroe improvvisato. Il suo viaggio di 10.500 km da Milano al campo base dell’Everest non è stato un capriccio, ma il culmine di un percorso di trasformazione durato un decennio. Una storia che ha trasformato la sua vita e ha incantato il pubblico del parco Amendola nella serata organizzata da FIAB Modena, dove ha raccontato come una bicicletta possa diventare uno strumento per conoscere il mondo e, soprattutto, se stessi.

2014: la svolta e la prima traversata

Tutto inizia nel 2014. Claudio, allora 27enne, conduce una vita che molti definirebbero “normale” a Milano: insegnante, allenatore di basket, una famiglia unita e le classiche vacanze estive in Europa e Nord America. Ma dentro di lui cresce un’inquietudine. Il 6 agosto di quell’anno, telefona a sua madre e annuncia la decisione che cambierà tutto: “Mamma, mi licenzio e provo a partire. Voglio un anno sabbatico per viaggiare”.

Inizia così la sua “seconda vita”. Il suo primo grande viaggio lo porta dall’Europa al Sud-est asiatico con mezzi pubblici. È in questa fase che impara le prime, fondamentali lezioni dalla strada. Nel deserto del Gobi, in Mongolia, dopo essere stato ricattato e abbandonato da un autista di cui si era fidato, viene soccorso da un anziano a bordo di un’auto d’epoca. Si ritrova a lavorare per una tribù di donne nomadi, il cui compito è raccogliere e far seccare gli escrementi di yak per l’inverno. Lì, dove le uniche parole in comune sono “OK” e “Coca-Cola”, scopre che il sorriso e una pacca sulla spalla sono un linguaggio universale, il miglior passaporto del mondo. E che una buona educazione ricevuta in Italia è valida anche in una sperduta tribù della Mongolia.

Il viaggio prosegue in Vietnam, dove resta deluso dal turismo di massa. Compra una moto per 100 dollari e si avventura in Cambogia. Arriva in un villaggio di palafitte, dove un pescatore locale gli svela la sua filosofia di vita: non “lavora”, ma pesca quando ha fame e vive il resto del tempo in socialità. Mentre l’Occidente offre una vita più lunga (85 anni in Italia contro i 52 in Cambogia), il pescatore lo spinge a chiedersi: “Qual è il prezzo di tutto questo?”. Claudio conia qui il suo mantra: non potendo allungare la vita, si ha però il potere di allargarla, con esperienze e intensità.

Dall’Australia all’autostop: la scoperta della fiducia

Arrivato a Jakarta, in Indonesia, perde la carta di credito. Con gli ultimi 400 euro vola in Australia. Ad Adelaide, in un quartiere di emigrati italiani, trova tre lavori in tre giorni e in otto mesi non solo recupera il denaro speso, ma mette da parte abbastanza per continuare. Decide allora di non prendere un aereo, ma di tornare a Milano interamente in autostop.
Un viaggio di 11 mesi che lo porta ad attraversare l’India, dove un santone Sikh gli predice il futuro, e l’Iran. Qui, aspettandosi l’ostilità descritta dai media, trova invece una generosità disarmante, imparando a distinguere sempre i governi dalle persone. “Ricordiamoci sempre che le persone buone, quelle normali, sono buone quasi dappertutto.”

 2017: maestro spaghetto in Cina

Dopo i primi viaggi, Claudio si innamora della Cina e nel 2017 decide di trasferirsi a Shenzhen, una megalopoli passata da 30.000 a 13 milioni di abitanti in 30 anni. Lavora come insegnante d’inglese in una scuola pubblica, dove i suoi 50 alunni lo chiamano “Idali Mia Lashi” (Maestro Spaghetto). Scopre gli estremi contrasti del Paese: mendicanti che chiedono l’elemosina con un QR code e il rigido controllo sociale, sperimentato sulla sua pelle quando, dopo aver attraversato a piedi col rosso alle 4 del mattino, la sua faccia viene proiettata su un maxischermo con la scritta: “Questo è un cattivo cittadino”.

La bicicletta e il viaggio interiore: da Golmud a Milano

È dopo l’esperienza in Cina che la bicicletta diventa la sua vera dimensione. Per “restituire” qualcosa all’Asia, organizza una raccolta fondi per un orfanotrofio di bambini tibetani in Nepal. L’impresa lo porta da Golmud (Cina) fino a Milano, un percorso di 9.000 km in sella alla sua Wencheng, una bicicletta chiamata come la principessa cinese che sposò un re tibetano, a simboleggiare l’unione tra  le due culture.

“Viaggiare in bici è il modo più lento e profondo di attraversare i paesi”, spiega Claudio. La bicicletta diventa il metronomo del paesaggio, un filtro che permette di assaporare il cambiamento, di vedere le fisionomie e le geografie mutare gradualmente. Questa filosofia si forgia nell’attraversamento dei deserti del Gobi e del Taklamakan, dove pedala per 1.500 chilometri in totale solitudine. Un’esperienza che, pur essendo “la più faticosa della mia vita”, si rivela anche “la più preziosa”. Lì, il viaggio chilometrico si fonde con quello interiore. La solitudine in sella non è vuoto, ma spazio per connettersi con la natura e con se stessi, un dialogo silenzioso tra l’uomo, la meccanica essenziale della bici e l’immensità del mondo.

 2024: la prova finale, da Milano all’Everest

Arriviamo al 2024. Claudio lavora come contadino e pastore in Svizzera per finanziare il suo sogno più ambizioso: un viaggio di 10.500 km da Milano ai piedi dell’Himalaya, per poi salire al campo base dell’Everest.

Claudio parte il 19 febbraio 2024, in sella alla sua fidata Wencheng. Le prime tappe, fredde e invernali, sono in Italia, dove viene ospitato da amici fino a Trieste. Ed è qui, a soli cinque giorni dalla partenza, che arriva il primo, potente shock etico. Mentre i social lo celebrano come un “eroe”, un’amica (viaggiatrice 82enne) lo porta a visitare il Silos, un magazzino dove si rifugiano i migranti della rotta balcanica. “Lì ho incontrato i ragazzi che hanno fatto il mio stesso viaggio, ma dalla direzione opposta”, racconta. Il contrasto è disarmante: lui pedala per piacere, con un passaporto e una carta di credito; loro camminano per necessità, dopo aver perso tutto. “I veri eroi sono loro“, conclude con voce commossa.

Lasciati i Balcani e la Turchia, la bicicletta gli permette di riattraversare l’Iran con occhi diversi rispetto al suo precedente viaggio in autostop. La lentezza della pedalata gli fa “assaporare il paese” in un modo nuovo, scoprendo una generosità che va oltre ogni aspettativa. Un giorno, dopo aver pedalato per otto giorni nel deserto, una ragazza lo vede, improponibile e sporco, e lo invita a casa sua, mettendo a repentaglio la sua stessa sicurezza. Quando il padre sta per scoprirli, Claudio è costretto a una fuga precipitosa, pedalando per 174 km in un solo giorno per allontanarsi il più possibile: il suo record personale, con la bici carica.

Ma la prova più estrema, fisica e psicologica, arriva in Afghanistan. Lo descrive come “il primo paese della mia vita dove non conoscevo nessuno che c’era stato”. È un’esperienza brutale: 41 gradi, 14 litri d’acqua al giorno per sopravvivere, un paese senza sorrisi dove la curiosità costante della gente annulla ogni privacy. “Io ho trascorso ogni istante della giornata con qualcuno che mi seguiva”, racconta. Lo pedinavano, lo guardavano mentre mangiava e dormiva, lo fotografavano. Al terzo giorno, è sull’orlo di cedere: “Io così non ce la faccio più, devo mollare”. È l’unico momento in dieci anni di viaggi in cui ha sentito un vero sconforto. Ma è proprio lì che la lezione più importante del viaggio si manifesta: sforzarsi di praticare empatia, di capire le ragioni di un popolo che ha conosciuto solo guerra e isolamento, e in cui l’unica cosa ad essersi “evoluta” sono le armi.

 La lezione finale: la responsabilità di chi pedala

La testimonianza di Claudio Piani è un manifesto per un cicloturismo consapevole. Ci ricorda che il privilegio di viaggiare per scelta comporta una grande responsabilità. Invita a “viaggiare in punta di piedi“, o meglio, in punta di pedali, con rispetto per culture che hanno il diritto di essere diverse da noi, senza trasformare il mondo “in un circo dove se paghi puoi avere quello che vuoi”.

In un’epoca di viaggi sempre più veloci, la bicicletta ci riporta a una dimensione umana, lenta e profonda. Ci insegna che non esiste un vero viaggio senza accoglienza: è la comunità degli “stanziali“, di chi resta e apre la porta di casa, che dà senso e rende possibile l’impresa dei “nomadi” in sella. È un patto di fiducia che ci invita a muoverci nel mondo non solo con una bicicletta, ma con gratitudine, rispetto e una profonda, instancabile curiosità verso l’altro.

Le linee del desiderio

A chi non è mai capitato di notare il solco scavato dal continuo andirivieni di passanti sul tappeto erboso di un’aiuola cittadina, un tracciato non previsto dal progettista ma che evidentemente risulta un percorso logico ed istintivo per la maggioranza dei cittadini? Ebbene quella è una “linea del desiderio”, un itinerario desiderabile spontaneamente tracciato delle persone.

Sono situazioni che rappresentano scorciatoie, vie maggiormente dirette od istintive che conducono a una meta: può essere l’aiuola attraversata dal pedone, ma anche il tratto percorso da un ciclista sul marciapiede o controsenso. Nonostante siano vietati, sappiamo bene quanto siano frequenti questi comportamenti, indotti anche da politiche di mobilità che hanno relegato tutti gli spostamenti non motorizzati in zone marginali, sconnesse e non curate.

Infatti, il design delle nostre città impone spesso percorsi frammentati, su marciapiedi con angoli retti, con ostacoli o dimensioni ristrette che non permettono il camminamento fianco a fianco, o che rendono il tragitto più lungo del necessario e magari esposto al sole (o non illuminato alla notte) in zone sgradevoli o poco attrattive.

Tanto da sfociare, poi, in casi non solo vietati ma anche molto pericolosi. Emblematica, in questo senso, la notizia a Modena di decine persone (non solo studenti) che tutti i giorni attraversano Viale Italia in corrispondenza delle strutture scolastiche e sportive che insistono sui due lati della strada ad alto scorrimento. Una volta esploso il problema, per adesso si è provveduto a mettere una barriera metallica: è un palliativo buono per l’urgenza, ma è insensato chiedere a tanti ragazzi allungare il percorso tutti i giorni di qualche centinaio di metri per raggiungere le prime strisce pedonali. Per il futuro, qui e negli altri casi, è necessario trovare soluzioni per dare priorità a pedoni e ciclisti e ristabilire i collegamenti desiderati se si vuole rendere la città più vivibile e fruibile.

Ad esempio, proprio per accorciare i percorsi ciclabili e renderli più naturali, in quasi tutte le nazioni europee è diffusissimo il “senso unico eccetto bici” che rende pedalabile nei due sensi le strade a senso unico per le auto. Un provvedimento che tra l’altro ha dappertutto aumentato la sicurezza di chi pedala.

La mobilità delle nostre città va ripensata, e nel farlo dovremmo ispirarci ad una campagna canadese di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale, in cui compaiono due bambini in strada con la bici e questo messaggio “loro non sono in mezzo alla tua via, sei tu che stai guidando dove loro vivono”.

Giornata Mondiale della Bicicletta

Anche quest’anno il 3 giugno si festeggia la Giornata Mondiale della Bicicletta, istituita all’unanimità nel 2018 da tutti 193 paesi dell’ONU, la cui Assemblea Generale ha così riconosciuto “l’unicità, la longevità e versatilità della  bicicletta che è in uso da due secoli e che rappresenta un mezzo di trasporto semplice, economico, affidabile e sostenibile, che promuove la preservazione ambientale e la salute, stimola la creatività e l’impegno sociale e rappresenta non solo un mezzo non solo di trasporto ma anche di accesso all’educazione, alla salute e allo sport.”

In effetti da quando a fine Ottocento fu inventata la “safety bicycle” con la trasmissione a catena e gli pneumatici, nacque la bicicletta nella sua forma in cui rimane sostanzialmente invariata ad oggi. Con questa invenzione il genere umano, che si era mosso per millenni a piedi o cavallo, finalmente disponeva di un mezzo più efficiente che moltiplicava la capacità di spostamento a parità di energie necessarie. La bici era in origine uno strumento ricreativo per la classe media, ma gradualmente divenne il mezzo di trasporto più usato dai ceti meno abbienti. Ai primi decenni del Novecento i cittadini benestanti iniziarono a usare le automobili, mentre le classi popolari si servivano della bicicletta per le esigenze quotidiane, fino a che anche nel nostro Paese arrivò la motorizzazione di massa, prima con gli scooter e poi con le automobili e la bici iniziò a essere considerata un mezzo retrogrado o un gioco per i bambini.

Ancora oggi purtroppo le politiche della mobilità in Italia hanno relegato l’uso della bici ai margini della strada e della considerazione, ma continua ad avere una grande vitalità non fosse altro perché molti non possono permettersi un’automobile, e perché rimane comunque l’unico mezzo di locomozione per chi non ha ancora l’età della patente, o per chi non ha più le abilità per guidare. Esistono invece per questa ultima categoria di persone una serie di mezzi di derivazione ciclistica come i tricicli o le carrozzine elettriche, che permettono anche a loro autonomia e libertà negli spostamenti.

Ed è proprio per questo che chiediamo ancora una volta di dedicare particolare attenzione alla bici nei piani di sviluppo delle città, di aumentare la sicurezza stradale e a integrarla nella pianificazione della mobilità. Non si tratta di rivendicazioni elitarie, ma al contrario di misure che mettono tutti i cittadini di fronte ad una reale possibilità di scelta per affrancarsi, quando è possibile, dalla dipendenza del mezzo a motore.

Anche nel 2025 torna Bimbimbici

Bimbimbici è una manifestazione nazionale di FIAB che vuole promuovere la mobilità attiva e diffondere l’uso della bicicletta tra giovani e giovanissimi. Si svolge il weekend dell’10-11 maggio 2025 in tantissime località di tutta Italia: l’edizione 2024 ha avuto più di 220 eventi in 18 regioni per un totale di oltre 43.000 partecipanti. L’evento ha il patrocinio di Unicef, Società Italiana di Pediatria, Ministero dell’Ambiente, ANCI, Confindustria ANCMA, Euromobility.

La manifestazione è rivolta principalmente a bambini e ragazzi, ma è aperta a tutti i cittadini: un’opportunità per pedalare insieme ed una vera e propria occasione di festa. Il “popolo” di Bimbimbici è costituito dalle persone (grandi e piccini) che amano la bicicletta, la natura e desiderano vivere rispettando l’ambiente. Bimbimbici vuole sollecitare una riflessione sulla necessità di creare zone verdi e piste ciclabili per aumentare la vivibilità dei centri urbani dando spazio alle persone.

E per ribadire l’importanza di un corretto stile di vita, nel corso della settimana precedente si propone di organizzare pedibus o bicibus (bike to school): ci muoviamo per andare a scuola in modo attivo, ribadendo che vogliamo città più sicure, spazi dedicati in prossimità delle scuole e una qualità migliore dell’aria che respiriamo.

Anche FIAB nella nostra provincia propone diverse iniziative. Domenica 11 maggio a Modena saranno due le pedalate: un giro di 20 km che al mattino a partire da Piazza Grande alle ore 9,30 toccherà 10 parchi cittadini, ed un’altra escursione che partendo da Via Frescobaldi a Modena Est alle ore 10,00 su ciclabili e percorsi nella natura ci porterà al Parco di Villa Sorra a Gaggio dove ci sarà un momento conviviale con giochi ed attività per i bimbi, pranzo al sacco e rientro nel pomeriggio.

Sempre domenica 11 maggio dalle ore 16 alle ore 19 a Carpi invece ci sono feste e giochi in Piazza Martiri all’interno della manifestazione “SE I BAMBINI POTESSERO GIOCARE” organizzata dalle Associazioni di volontariato, degli Istituti culturali del Comune di Carpi e della Diocesi di Carpi: FIAB sarà presente con un percorso in cui i bambini potranno provare ad andare “senza rotelle” ed imparare alcune semplici regole della strada.

Tutti gli eventi nazionali di Bimbimbici sono su www.andiamoinbici.it e quelli modenesi su www.modenainbici.it

Il nostro ringraziamento a Papa Francesco

Dieci anni fa, il 30 settembre 2015, una piccola delegazione FIAB in piazza San Pietro ha consegnato a Papa Francesco la tessera n.1 del 2016. Ad accompagnare la consegna una lettera con la quale la nostra presidente Giulietta Pagliaccio spiegava i motivi del gesto, premettendo che la Federazione promuove da oltre 25 anni attività nel settore della tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente nell’ambito delle politiche per la mobilità sostenibile.

Aver letto la Sua Enciclica sulla Cura della Casa Comune ci aveva dato speranza e vigore per proseguire verso un cambiamento dello stile di vita nella nostra società all’insegna del rispetto del patrimonio che ci è stato donato: la Madre Terra. Il nostro impegno in questi anni è volto a proporre un nuovo modello di mobilità perché, come Ella scrive: “La qualità della vita nelle città è legata in larga parte ai trasporti, che sono spesso causa di grandi sofferenze per gli abitanti. Nelle città circolano molte automobili utilizzate da una o due persone, per cui il traffico diventa intenso, si alza il livello d’inquinamento, si consumano enormi quantità di energia non rinnovabile e diventa necessaria la costruzione di più strade e parcheggi, che danneggiano il tessuto urbano. Molti specialisti concordano sulla necessità di dare priorità ai trasporti pubblici. Tuttavia, alcune misure necessarie difficilmente saranno accettate in modo pacifico dalla società senza un miglioramento sostanziale di tali trasporti, che in molte città comporta un trattamento indegno delle persone a causa dell’affollamento, della scomodità o della scarsa frequenza dei servizi e dell’insicurezza.”

A questi problemi che sono citati nella Sua Enciclica, una risposta è certamente l’uso della bici, un modo equo e intelligente per muoversi nelle nostre città. La bici è democratica perché accessibile a tutti, è economica, non consuma preziose risorse ambientali, non occupa spazio e permette di fare una sana attività fisica quotidiana, facilita il contatto diretto con le persone e aiuta la socialità.

Per questo, con atteggiamento laico e rispettoso, lo abbiamo ringraziato per aver inserito la giustizia climatica accanto a quella sociale e grazie anche per aver ricordato a tutti noi che occorre vivere con rispetto il nostro passaggio su questa Terra, per dare una speranza alle generazioni future.

Mobilità sostenibile e lenta? No attiva!

Le nostre richieste per migliorare le condizioni di chi in città si muove a piedi o in bici spesso si concentrano sulla (poca) sicurezza delle infrastrutture, sulla loro scomodità, o al massimo sulla mancanza di parcheggi sicuri. Tutte misure che hanno bisogno di investimenti e che spesso vengono viste In Italia come soldi sprecati per i “ciclisti”, termine con il quale vengono catalogati tutti i cittadini in bici, come se sfrecciasero tutti a 40 all’ora in tutine aderenti in lycra su costose bici in carbonio, ad occupare spazio stradale indispensabile a chi deve andare a lavorare in auto.

Sarà anche per questo che tra le varie strategie comunicative in Olanda c’è quella di avere due termini per distinguere i “fietser” (letteralmente “le persone in bicicletta” – cioè i cittadini comuni che si muovono quotidianamente in bici per utilità), dai ciclisti sportivi (“wielrenner”). Perché in realtà ogni euro speso, ogni metro di strada dedicato alla ciclabilità, è una risorsa dedicata allo studente, al pensionato da Piazza Grande, alla badante con le sporte, al notaio del centro o all’operaio della Maserati. Cioè potenzialmente a ognuno di noi.

E dovremmo anche smetterla di chiamare la mobilità non motorizzata con termini inflazionati come “sostenibile” o peggio “dolce”, che richiama una attività di chi non ha nulla di importante da fare. Molto meglio chiamarla “attiva”, che ricorda che a piedi o in bici, tra l’altro, si arriva a destinazione con una bella attività fisica che ci fa star meglio. Come si dice “l’auto brucia i tuoi soldi e ti fa ingrassare, la bici brucia i tuoi grassi e ti fa risparmiare”.

E poi dovremmo anche smetterla di chiamarci “utenti deboli” (vulnerable road user) e passare a “utenti pregiati” (valuable road user): un cambio di lessico che in Europa definisce il passaggio tra utenti che necessitano di una “tutela particolare dai pericoli derivanti dalla circolazione stradale” ad utenti che la comunità “privilegia” e quindi che devono avere priorità nel ridisegno degli spazi urbani pubblici.

Insomma, bisogna tornare a considerare le strade cittadine come luogo naturale degli spostamenti attivi con almeno pari spazio e dignità di quelli che necessitano di un motore (il 45% dei quali a Modena sono sotto 2,5km). Allora si capirà meglio perché ogni euro speso in mobilità attiva rende molto di più in salute pubblica, sicurezza, quiete, e bellezza dello spazio pubblico.

Progettare in rete? Sì, grazie!

Continua a investire sulla ciclabilità la nostra vicina di casa, l’Area Metropolitana di Bologna, con un altro passo verso la promozione concreta di quel “cambiamento socio culturale” di cui parla il PUMS bolognese: trasformare in modo radicale le abitudini di residenti e city users in favore di un sistema di mobilità incentrato su trasporto pubblico e mobilità attiva. Questa volta, la spinta alla trasformazione passa attraverso il Manuale di progettazione della Bicipolitana e delle sue reti locali, appena approvato dal Sindaco metropolitano. Si tratta di uno strumento di indirizzo e guida pratica per tecnici, progettisti e amministratori, che ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo della ciclabilità su vasta scala in un’ottica di rete, attraverso una progettazione omogenea, uniforme ed inclusiva, che punta al contempo alla qualificazione dei contesti attraversati e alla riconoscibilità delle infrastrutture ciclabili.

Il Manuale di progettazione della Bicipolitana (scaricabile dal sito bicipolitanabolognese.it) si compone di quattro capitoli: Principi della Bicipolitana, ovvero le linee guida generali che sono alla base di una progettazione di qualità a livello strategico e territoriale; Spazi ciclabili, un catalogo delle diverse tipologie di collegamento ciclabile e sulla loro adeguatezza in base al contesto; Continuità e interferenze, ossia indicazioni su come assicurare la continuità, la leggibilità e la sicurezza dei percorsi ciclabili nei punti in cui sono esposti o devono per qualche motivo interrompersi; Materiali, dispositivi, dotazioni, ovvero gli elementi architettonici e tecnici propri dell’infrastruttura ciclabile, atti a garantirne un inserimento armonico nel contesto e ad assicurare massimi livelli di comfort e sicurezza per l’utenza ciclabile.

È infine presente una sezione che contiene il glossario di riferimento, il contesto normativo e l’appendice che include il documento tecnico per l’applicazione della recente Riforma del Codice della Strada (L. 177/2024).

Uno strumento che riteniamo preziosissimo, perché uniforma le indicazioni di intervento sui percorsi ciclabili sia in caso di nuove infrastrutture, sia per l’adeguamento di quelle esistenti, a tutto vantaggio dell’omogeneità e della coesione di una rete pensata nel suo insieme. E’ una visione di cui nel territorio Modenese si sente ancora acutamente la mancanza, e su cui occorrerebbe lavorare, anche se significherebbe sacrificare un po’ l’estro creativo e le doti di improvvisazione di certi progettisti locali.