Strade scolastiche: quando i bambini riconquistano lo spazio urbano

Immaginatele, le strade davanti alle nostre scuole. Non più fiumi di auto e smog negli orari di punta, ma spazi restituiti ai loro veri protagonisti: i bambini. Luoghi per correre, giocare, chiacchierare in sicurezza. Questa visione, a lungo sostenuta da cittadini e associazioni come Genitori ECOattivi e FIAB, incomincia finalmente a diventare realtà a Modena. Il modello delle “strade scolastiche”, che sta cambiando il volto di tante città europee, sta mettendo radici anche qui, dimostrando che la perseveranza dal basso può tradursi in azioni concrete.

Anche questa spinta ha portato l’Amministrazione a stanziare fondi, ricavati dalle sanzioni del codice della strada, per un primo, ambizioso progetto di “aree quiete scolastiche”. I fatti iniziano a seguire le sollecitazioni: in via Corni (scuole Galilei e Calvino) si sta riqualificando il percorso ciclopedonale creando un’area giochi, mentre in via Frescobaldi (Saliceto Panaro) nascerà inizialmente un’area pedonale più sicura. L’intervento più atteso è quello in via Amundsen (scuole Giovanni XXIII e Cavour), con un cantiere al via da settembre, a cui seguirà una sperimentazione alla primaria Bersani di Albareto durante la Settimana Europea della mobilità. E ora nuove scuole si stanno facendo avanti per richiedere interventi, come di recente hanno chiesto le Graziosi.

È fondamentale ricordare da dove nasce questo percorso. Non da una concessione, ma da una conquista. Parte con iniziative come Pedibus e Bicibus che costruiscono comunità, prosegue con la raccolta di dati sulle abitudini delle famiglie e si trasforma in un dialogo serrato con le istituzioni, fino a vedere le richieste diventare progetti finanziati. I benefici di questo circolo virtuoso vanno oltre la sicurezza: significa migliorare la qualità dell’aria che i nostri figli respirano, incentivare la mobilità attiva e ridurre il traffico, come insegnano le esperienze di Parigi e Barcellona.

Questi non sono solo interventi stradali, ma un progetto educativo e culturale. Una città che azzera il traffico davanti alle scuole è un laboratorio di educazione civica, dove i bambini imparano il valore di uno spazio pubblico di qualità. Ogni transenna posizionata da un volontario, o ancor meglio ogni fioriera o panchina, ogni marciapiede allargato, rappresenta un passo avanti nella costruzione di una città per le persone, non per le auto.

Come FIAB, continueremo a promuovere, a proporre e a monitorare, perché ogni metro di strada reso più sicuro per un bambino è un investimento sul futuro di tutta la comunità. La strada è lunga, ma abbiamo iniziato a percorrerla.

Modena, dalle ferrovie perdute al bivio della mobilità futura

La provincia di Modena si trova oggi a un bivio, sospesa tra un passato di oltre 100 chilometri di ferrovie secondarie dismesse a partire dal secondo dopoguerra e un futuro che sia in grado di recuperare il meglio un glorioso passato, che nel 1940 vedeva una rete capillare su ferro, e di cui oggi resta solo la precaria linea Modena-Sassuolo.

Un’eredità pesante, quella delle “ferrovie perdute”, che ha visto la progressiva dismissione di tratte fondamentali come la Modena-Mirandola (33km soppressa nel 1964), la Modena-Vignola (24km cancellata nel 1972), la Modena-Nonantola-Ferrara (60km eliminata nel 1956), la Carpi-Correggio-Bagnolo (18km chiusa nel 1955) e la Cavezzo-San Felice-Finale (20km chiusa nel 1964). A queste si aggiungono le “incompiute” Mirandola-Novi-Fabbrico e la Modena-Pavullo, che con i suoi 40 km di tracciato, 5 gallerie e 22 caselli, rappresenta un corridoio naturale di eccezionale valore. Il parziale recupero di alcuni di questi sedimi a uso ciclistico, come la Modena-Vignola, ha mostrato risultati incoraggianti, trasformandoli in apprezzate infrastrutture per il tempo libero. Tuttavia, la concezione di questi percorsi rimane prevalentemente ricreativa, lontana dal modello delle “superciclabili” extraurbane del Nord Europa, vere e proprie arterie per la mobilità quotidiana.

Le recenti dichiarazioni di diversi amministratori locali sembrano indicare una nuova consapevolezza di una idea di un futuro basato su una rete capillare di trasporto pubblico, in grado di affrontare il problema di una provincia costantemente congestionata dal traffico. Sono tornate in campo le ipotesi di una “metropolitana leggera”, che possa servire anche i collegamenti con la provincia, in particolare con Sassuolo, Carpi e Reggio Emilia, e di una “Ferrovia Cispadana” per collegare diverse città della regione. Come FIAB, sosteniamo questa direzione e suggeriamo di puntare con decisione sull’intermodalità, favorendo la combinazione treno + bici per completare i percorsi da e verso le stazioni, e garantire una mobilità realmente flessibile e sostenibile.

E per i nodi mancanti, si dovrebbe poi integrare il trasporto su ferro con una rete di “superciclabili” di livello metropolitano: percorsi larghi, illuminati e sicuri, con precedenza nelle intersezioni. Su tratte medio-corte e con il supporto della micromobilità elettrica, potrebbero rappresentare per tanti cittadini un’alternativa concreta all’automobile. Il futuro della mobilità modenese si scrive oggi: le scelte che verranno compiute determineranno se la provincia saprà essere all’altezza della grande storia che ha perduto.

Il paradosso di Modena

È passato un anno da quando il rapporto Ecosistema Urbano 2024 ha rivelato la contraddizione di Modena, che nell’estate del 2025 si trova ancora a un bivio cruciale. La città si è classificata al 27º posto nazionale per sostenibilità urbana, con buona presenza di ZTL e piste ciclabili, ma è scivolata al 95º posto per incidenti stradali, diventando maglia nera regionale per pedoni investiti.

In seguito, i dati Istat consolidati per il 2024, presentati a luglio 2025, sono stati impietosi: la provincia di Modena ha contato 41 decessi, seconda solo a Bologna in regione, con il record negativo di 10 pedoni uccisi. Il costo sociale è di quasi 85 milioni di euro, con un impatto pro capite di 462 euro, superiore a Bologna (393 euro).

Modena rappresenta al massimo il prototipo della “città virtualmente sostenibile”: ha investito nell’hardware della mobilità dolce, ma non è riuscita a scalfire la cultura automobilistica radicata. È la sindrome delle città medie italiane del boom economico: l’auto non è solo trasporto, ma simbolo di status, estensione dell’identità, conquista sociale sedimentata in decenni di benessere. Mentre ZTL, piste ciclabili e mezzi pubblici vengono percepiti più come concessioni alla modernità che alternative desiderabili all’uso dell’auto privata.

Questa cultura si riflette nell’urbanistica del “et et” invece che dell'”aut aut”: ZTL estese coesistono con alto tasso di motorizzazione, piste ciclabili si sviluppano parallele alle strade ad alto scorrimento, il trasporto pubblico compete senza vincere. Il caso Modena dimostra che la sostenibilità non si raggiunge per addizione di elementi virtuosi, ma richiede sottrazione radicale di quelli critici. Serve uno “shift modale strutturale” che renda l’auto il mezzo meno conveniente rispetto a bici e mezzi pubblici.

Per cambiare le dinamiche della mobilità le politiche devono essere selettive e non addizionali: se si aggiungono nuove modalità di transito, senza togliere parcheggi e priorità al traffico privato, i cittadini continueranno per comodità ad usare l’auto. Se i cittadini possono transitare e parcheggiare ovunque davanti ad ogni destinazione, perché dovrebbero cambiare le loro abitudini? In ogni città europea che ha fatto con successo queste operazioni, i marciapiedi, le piste ciclabili e corsie bus hanno tolto spazio a parcheggi e corsie di transito.

Modena non è un’anomalia, ma il perfetto emblema di un modello urbano contraddittorio. Finché questa contraddizione non si risolverà, Modena rimarrà un paradosso vivente in attesa di cura.

Violenza stradale: non freddi numeri, ma nomi e cognomi.

Ai primi giorni di agosto, all’osservatorio di ASAPS risultano 141 decessi tra i ciclisti: di questi quasi la metà (68) erano over 65, ed in 14 casi i conducenti sono fuggiti. Nei primi sei mesi del 2025 è stato rilevato un incremento di ciclisti morti del 21,8% rispetto al 2024.

Freddi numeri? Nemmeno per sogno, andiamo a conoscere solo quelli dell’ultima settimana.

Tre persone travolte a Terlizzi in Puglia appartenenti alla sezione locale dell’Avis, erano molto conosciuti nella comunità di Andria. Antonio Porro, 70 anni, imprenditore fondatore di una torrefazione. Sandro Abruzzese, 30 anni, lavorava come assicuratore, mentre Vincenzo Mantovani, 50 anni, titolare di un’officina lascia una moglie e due figlie. Dopo una settimana di lavoro e volontariato, il gruppo era solito pedalare la domenica: sono stati travolti da un ragazzo 30enne che stava per raggiungere alcuni amici a Bari per le vacanze.

Dal sud ci spostiamo al nord per raccontare di uno scontro stradale che ha spezzato la vita di Deborah Rolando, 48 anni, un compagno e 3 figli di 18, 16 e 15 anni, ed era la titolare del bar «Vecchio mulino» a Crevoladossola dove viveva sopra il locale da oltre dieci anni. Come quasi tutti i giorni era in sella alla sua bici e, secondo le prime ricostruzioni, è stata travolta da un 23enne alla guida di furgone impegnato in una manovra di sorpasso di tre auto.

Ecco, su quelle bici non ci sono radical chic che non hanno nulla da fare di meglio, ma persone normali, che lavorano, pagano le tasse, contribuiscono al benessere della comunità e che hanno tutto il diritto di occupare la strada, anche solo per divertimento, con il mezzo che preferiscono.

Purtroppo, anche nei commenti social alla tragedia di Terlizzi, i ciclisti uccisi vengono derisi, umiliati, insultati. Ci tocca ancora sentire che se la sono cercata, che la strada è di chi lavora, che i ciclisti fanno solo perdere tempo, quando basta leggere le cronache per rilevare che spesso gli investitori non avevano nulla di più “importante” da fare di chi è stato investito (anzi spesso è il contrario).

È quindi necessario ribadire che la strada è di tutti, e che in questo paese rivendichiamo la libertà di scegliere il mezzo con cui spostarci senza rischiare ogni giorno la vita. Perché invece sulle strade italiane vige la legge del più forte (o il Codice della Strage): è una emergenza nazionale che ci interessa solo quando scopriamo che sono anche amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro. E allora, poi, scatta l’empatia. “Una tragedia. RIP in pace, Angelo”.

Zero morti sulla strada: non è più un’utopia

Mentre Modena conquista il triste primato regionale di pedoni investiti mortalmente, la capitale finlandese, Helsinki, festeggia un risultato storico: zero vittime della strada in un anno intero. Un traguardo che per una città di quasi 700.000 abitanti non è frutto del caso, ma di una strategia precisa, coraggiosa e, soprattutto, replicabile. Una lezione utile per la nostra città, da studiare con la massima attenzione, proprio mentre, come parte della rete “Modena 30”, chiediamo con massima urgenza il limite dei 30 km/h nelle aree attorno alle scuole

Il segreto del successo di Helsinki non risiede solo nell’abbassare i limiti di velocità: 30 km/h in quasi metà delle strade, specialmente nelle aree residenziali e vicino alle scuole. La vera rivoluzione è stata un approccio “data-driven”: la città si è dotata di una rete di sensori, ha analizzato sistematicamente i dati sugli incidenti e ha usato strumenti predittivi per capire dove e perché le regole non venivano rispettate. Sono state utilizzate mappe di rischio e sondaggi sulla sicurezza percepita per pianificare le priorità.

Grazie a questa profonda conoscenza, sono state modificate le infrastrutture. Strade volutamente più strette, alberature e un design urbano più complesso costringono chi guida ad abbassare la velocità in modo naturale. Le intersezioni sono state riprogettate per proteggere i più vulnerabili – famiglie con bambini, anziani, chi si sposta a piedi o in bici – con attraversamenti rialzati e chiara segnaletica visiva. Inoltre, il trasporto pubblico è stato potenziato per ridurre il numero di auto in circolo. Vengono coinvolti anche cittadini, associazioni e istituzioni in processi partecipativi e campagne di educazione stradale.

Si è passati così da una mera logica punitiva a una progettuale, rendendo la sicurezza una conseguenza di un intero sistema città che ha un effetto calmante sulla guida.

L’esempio di Helsinki dimostra che “Vision Zero”, obiettivo dell’Unione Europea di zero morti sulle strade urbane per il 2050, non è un’utopia. Modena ha già uno strumento per iniziare questo percorso: il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile (PUMS). È proprio all’interno del PUMS che questa visione può e deve essere integrata. Ampliando gli interventi settoriali, il Comune può adottare un approccio sistemico come quello finlandese: utilizzare i dati non solo per monitorare, ma per progettare attivamente la sicurezza, modificando le strade e lo spazio pubblico per salvare vite. Modena ha tutti i numeri per invertire la rotta e mettere al centro la vita delle persone, per una città più sicura, sana e vivibile per tutti.

Pedoni investiti a Modena: “Basta morti sulle strade. È ora che la città cambi passo”

La notizia del tragico investimento di un signore mentre attraversava sulle strisce pedonali in via Morane era arrivata proprio mentre, come associazioni impegnate per la sicurezza stradale, stavamo analizzando l’ennesimo, drammatico dato presentato dall’Assessora Regionale alla Mobilità, Irene Priolo: Modena e la sua provincia detengono la maglia nera in regione per numero di pedoni investiti, con un aumento di incidenti e feriti in netta controtendenza rispetto al resto dell’Emilia-Romagna [1].

Impariamo oggi che quel signore si chiamava Lanfranco Bergamini, aveva 78 anni ed è morto in ospedale dopo un’agonia di diversi giorni a causa di quello stesso scontro.

Dietro ai freddi numeri che lasciano spesso indifferenti e a cui siamo purtroppo abituati, ci sono persone con nome e cognome, le loro famiglie e i loro cari a cui vanno le nostre condoglianze, ma di fronte a questi numeri non si può non andare oltre al dolore per capirne le cause e trovare soluzioni vere e durature a problemi sistemici.

Questi dati seguono di pochi giorni la morte di Maria Sivio, un’altra persona anziana investita a Castelnuovo Rangone. Una terribile sequenza che conferma ciò che denunciamo da anni: non sono fatalità, ma tragedie annunciate, frutto di un modello di città che continua a privilegiare la velocità delle auto a scapito della vita delle persone.

Mentre altre città come Bologna invertono la rotta con la ‘Città 30’ e vedono calare gli incidenti, Modena peggiora, collezionando una tragica maglia nera per numeri di morti (in particolare persone a piedi) generando un costo sociale di 84.940.228 euro pari a 462 euro pro capite, contro i 393 di Bologna. Non è più tempo di timide promesse, ma di un’azione decisa e provata: rendere Modena una Città 30 per salvare vite e creare spazi più vivibili per tutte le persone.

Le cause degli scontri stradali sono quasi sempre le stesse, come confermano i dati ISTAT: eccesso di velocità e distrazione alla guida, aggravate da un’infrastruttura stradale che non protegge a sufficienza gli utenti più vulnerabili.

Il nostro sentimento, oggi, è un misto di dolore e rabbia, perché constatiamo la mancanza di una reale percezione della gravità sociale di questo problema. Basta con le scuse: non vogliamo più sentirci dire che mancano le risorse o che la soluzione sia solo “educare gli utenti”. Non è più accettabile, mentre le persone rischiano la vita per il semplice gesto di attraversare una strada. Servono azioni coraggiose che dipendono unicamente dalla volontà politica locale.

Proponiamo due interventi prioritari:

  1. Un piano straordinario per la sicurezza degli attraversamenti
    Chiediamo di destinare ogni risorsa disponibile a un programma di messa in sicurezza di tutti gli attraversamenti pedonali, partendo da quelli vicini a scuole, parchi, ospedali e centri per anziani. Gli interventi devono includere:

    • Attraversamenti rialzati
    • Chicane
    • Marciapiedi avanzati (“orecchie”)
    • Isole salvagente e spartitraffico
    • Segnaletica orizzontale e verticale ad alta visibilità e durabilità
  2. Controlli sistematici e costanti
    La Polizia Locale deve essere impiegata in modo mirato e continuativo, 365 giorni all’anno, con pattuglie dedicate a:

    • Verificare il rispetto della precedenza ai pedoni sulle strisce, sanzionando chi non rallenta o addirittura non si ferma e chi parcheggia in prossimità, ostacolando la visibilità.
    • Verificare il rispetto dei limiti di velocità, in tutte le strade incluse, le zone 30 e davanti alle scuole.
    • Reprimere l’uso del cellulare alla guida, una delle principali cause di distrazione.
    • Controlli frequenti su auto in sosta irregolare che occupano marciapiedi, ciclopedonali o ciclabili, creando ostacoli per gli utenti più deboli.

Le campagne di sensibilizzazione spot non bastano più. Chiunque guidi sa quanto queste norme di civiltà siano sistematicamente violate, a fronte di una repressione del tutto inadeguata alla dimensione del fenomeno.

L’obiettivo a lungo termine deve essere quello di avere strade urbane che costringono a moderare la velocità, non che lo permettono soltanto. Per questo chiediamo:

  • L’istituzione del limite di 30 km/h sulla quasi totalità della rete stradale urbana, seguendo l’esempio virtuoso di Bologna [2], che ha già registrato ottimi risultati in termini di riduzione di scontri, morti e feriti.
  • Come primo passo, non più rimandabile, proponiamo una sperimentazione immediata per la creazione di “Aree Scolastiche Sicure”. Questa misura prevede l’introduzione e l’effettivo controllo del limite di velocità a 30 km/h e attraversamenti rialzati in un’area estesa per almeno 500 metri attorno a tutti gli istituti scolastici. Tale provvedimento si affiancherebbe e rafforzerebbe le “zone quiete scolastiche” – ovvero le chiusure al traffico motorizzato almeno negli orari di entrata e uscita, già previste dal Codice della Strada – con lo scopo di trasformare i percorsi casa-scuola in tragitti sicuri, incentivando la mobilità attiva e l’autonomia di bambini e ragazzi.

Chiediamo infine che il Comune di Modena adotti formalmente la “Vision Zero” come principio guida delle sue politiche sulla mobilità. L’unico obiettivo accettabile è zero vittime sulla strada. Il Comune deve investire in una grande campagna culturale per promuovere un nuovo patto di convivenza stradale. E le associazioni di Modena 30 sono pronte a collaborare.

Perché la sicurezza di persone che si spostano a piedi, in bicicletta o coi mezzi pubblici non è una questione di parte, ma il principale indicatore della civiltà di una comunità.

Fonti:
[1] https://mobilita.regione.emilia-romagna.it/notizie/attualita/sicurezza-stradale-scende-il-numero-di-vittime-e-feriti-in-emilia-romagna-22-e-3-negli-ultimi-cinque-anni/documenti-allegati/relazione-incidenti-2024.pdf/@@download/file

[2] Bologna Città 30 Città 30, i dati dei primi 6 mesi del 2025 | Comune di Bologna

[3] Vision zero: a Helsinki un anno senza morti sulle strade: https://yle.fi/a/74-20174831

Modena, 35 incidenti in 7 giorni. È ora di guardare alle città più sicure

Andare più piano per vivere meglio e più sicuri. Non è uno slogan, ma un principio supportato da dati inequivocabili. Già nel 2021 l’OMS, lanciando la campagna #love30, avvertiva: ogni km/h in più di velocità media aumenta del 3% il rischio di incidenti e del 4-5% la gravità dei danni alle persone.

Molte città europee hanno già ascoltato. Ad Amsterdam, la recente introduzione dei 30 km/h ha portato a un calo degli incidenti dell’11%, che sale al 15% per quelli tra auto, bici e pedoni. E gli automobilisti? Oltre sei su dieci rispettano il nuovo limite, e otto su dieci non superano i 40 km/h. A Bruxelles, due anni prima, i risultati sono stati simili: -20% di incidenti gravi e una notevole riduzione del rumore. L’effetto più interessante è stato quello “calmante”: la velocità media è diminuita ovunque, persino sulle strade dove il limite non era stato modificato.

E in Italia? L’esempio virtuoso è Bologna, che nel suo primo anno di “Città 30” ha registrato un -13% di incidenti, -11% di feriti e un crollo del 31% per i codici rossi, con un rispetto del limite di velocità di 30 km/h che è arrivato fino a quasi il 60% delle percorrenze. Ma il dato più sorprendente arriva dalle scatole nere delle automobili, che hanno analizzato 135 mila viaggi reali: le accelerazioni aggressive sono calate del 31% e le frenate improvvise addirittura del 58%. Questo non significa solo meno incidenti, ma certifica una guida più rilassata e uno stress minore al volante. Quindi, se da dentro l’auto il cambiamento è minimo ma positivo, fuori, per chi in città vive, cammina o pedala, la differenza è enorme.

Ora guardiamo a casa nostra. Solo nella prima settimana di luglio, a Modena ci sono stati 35 incidenti che hanno coinvolto 80 persone. La stragrande maggioranza (28 su 35) è avvenuta proprio in centro abitato: nelle strade dove viviamo, andiamo a scuola o facciamo la spesa. Visti i risultati ottenuti altrove, non è difficile capire quanto sarebbe importante seguire i buoni esempi, la maggioranza dei cittadini si adatta in modo naturale a un ritmo più umano. Ma alla fine, non è solo una questione di abitudine o di regole: è una scelta di responsabilità, ed ogni volta che ci mettiamo al volante, la nostra vita e quella degli altri sono nelle nostre mani. Un pensiero da non dimenticare mai. E non è mai troppo tardi per scegliere la sicurezza di tutti e costruire insieme una città più vivibile.

Claudio Piani: da Milano all’Himalaya. Cronaca di un viaggio lungo dieci anni

“Non mi sono svegliato una mattina dicendo ‘Vado in Nepal in bicicletta’”. Con queste parole, Claudio Piani smonta subito il mito dell’eroe improvvisato. Il suo viaggio di 10.500 km da Milano al campo base dell’Everest non è stato un capriccio, ma il culmine di un percorso di trasformazione durato un decennio. Una storia che ha trasformato la sua vita e ha incantato il pubblico del parco Amendola nella serata organizzata da FIAB Modena, dove ha raccontato come una bicicletta possa diventare uno strumento per conoscere il mondo e, soprattutto, se stessi.

2014: la svolta e la prima traversata

Tutto inizia nel 2014. Claudio, allora 27enne, conduce una vita che molti definirebbero “normale” a Milano: insegnante, allenatore di basket, una famiglia unita e le classiche vacanze estive in Europa e Nord America. Ma dentro di lui cresce un’inquietudine. Il 6 agosto di quell’anno, telefona a sua madre e annuncia la decisione che cambierà tutto: “Mamma, mi licenzio e provo a partire. Voglio un anno sabbatico per viaggiare”.

Inizia così la sua “seconda vita”. Il suo primo grande viaggio lo porta dall’Europa al Sud-est asiatico con mezzi pubblici. È in questa fase che impara le prime, fondamentali lezioni dalla strada. Nel deserto del Gobi, in Mongolia, dopo essere stato ricattato e abbandonato da un autista di cui si era fidato, viene soccorso da un anziano a bordo di un’auto d’epoca. Si ritrova a lavorare per una tribù di donne nomadi, il cui compito è raccogliere e far seccare gli escrementi di yak per l’inverno. Lì, dove le uniche parole in comune sono “OK” e “Coca-Cola”, scopre che il sorriso e una pacca sulla spalla sono un linguaggio universale, il miglior passaporto del mondo. E che una buona educazione ricevuta in Italia è valida anche in una sperduta tribù della Mongolia.

Il viaggio prosegue in Vietnam, dove resta deluso dal turismo di massa. Compra una moto per 100 dollari e si avventura in Cambogia. Arriva in un villaggio di palafitte, dove un pescatore locale gli svela la sua filosofia di vita: non “lavora”, ma pesca quando ha fame e vive il resto del tempo in socialità. Mentre l’Occidente offre una vita più lunga (85 anni in Italia contro i 52 in Cambogia), il pescatore lo spinge a chiedersi: “Qual è il prezzo di tutto questo?”. Claudio conia qui il suo mantra: non potendo allungare la vita, si ha però il potere di allargarla, con esperienze e intensità.

Dall’Australia all’autostop: la scoperta della fiducia

Arrivato a Jakarta, in Indonesia, perde la carta di credito. Con gli ultimi 400 euro vola in Australia. Ad Adelaide, in un quartiere di emigrati italiani, trova tre lavori in tre giorni e in otto mesi non solo recupera il denaro speso, ma mette da parte abbastanza per continuare. Decide allora di non prendere un aereo, ma di tornare a Milano interamente in autostop.
Un viaggio di 11 mesi che lo porta ad attraversare l’India, dove un santone Sikh gli predice il futuro, e l’Iran. Qui, aspettandosi l’ostilità descritta dai media, trova invece una generosità disarmante, imparando a distinguere sempre i governi dalle persone. “Ricordiamoci sempre che le persone buone, quelle normali, sono buone quasi dappertutto.”

 2017: maestro spaghetto in Cina

Dopo i primi viaggi, Claudio si innamora della Cina e nel 2017 decide di trasferirsi a Shenzhen, una megalopoli passata da 30.000 a 13 milioni di abitanti in 30 anni. Lavora come insegnante d’inglese in una scuola pubblica, dove i suoi 50 alunni lo chiamano “Idali Mia Lashi” (Maestro Spaghetto). Scopre gli estremi contrasti del Paese: mendicanti che chiedono l’elemosina con un QR code e il rigido controllo sociale, sperimentato sulla sua pelle quando, dopo aver attraversato a piedi col rosso alle 4 del mattino, la sua faccia viene proiettata su un maxischermo con la scritta: “Questo è un cattivo cittadino”.

La bicicletta e il viaggio interiore: da Golmud a Milano

È dopo l’esperienza in Cina che la bicicletta diventa la sua vera dimensione. Per “restituire” qualcosa all’Asia, organizza una raccolta fondi per un orfanotrofio di bambini tibetani in Nepal. L’impresa lo porta da Golmud (Cina) fino a Milano, un percorso di 9.000 km in sella alla sua Wencheng, una bicicletta chiamata come la principessa cinese che sposò un re tibetano, a simboleggiare l’unione tra  le due culture.

“Viaggiare in bici è il modo più lento e profondo di attraversare i paesi”, spiega Claudio. La bicicletta diventa il metronomo del paesaggio, un filtro che permette di assaporare il cambiamento, di vedere le fisionomie e le geografie mutare gradualmente. Questa filosofia si forgia nell’attraversamento dei deserti del Gobi e del Taklamakan, dove pedala per 1.500 chilometri in totale solitudine. Un’esperienza che, pur essendo “la più faticosa della mia vita”, si rivela anche “la più preziosa”. Lì, il viaggio chilometrico si fonde con quello interiore. La solitudine in sella non è vuoto, ma spazio per connettersi con la natura e con se stessi, un dialogo silenzioso tra l’uomo, la meccanica essenziale della bici e l’immensità del mondo.

 2024: la prova finale, da Milano all’Everest

Arriviamo al 2024. Claudio lavora come contadino e pastore in Svizzera per finanziare il suo sogno più ambizioso: un viaggio di 10.500 km da Milano ai piedi dell’Himalaya, per poi salire al campo base dell’Everest.

Claudio parte il 19 febbraio 2024, in sella alla sua fidata Wencheng. Le prime tappe, fredde e invernali, sono in Italia, dove viene ospitato da amici fino a Trieste. Ed è qui, a soli cinque giorni dalla partenza, che arriva il primo, potente shock etico. Mentre i social lo celebrano come un “eroe”, un’amica (viaggiatrice 82enne) lo porta a visitare il Silos, un magazzino dove si rifugiano i migranti della rotta balcanica. “Lì ho incontrato i ragazzi che hanno fatto il mio stesso viaggio, ma dalla direzione opposta”, racconta. Il contrasto è disarmante: lui pedala per piacere, con un passaporto e una carta di credito; loro camminano per necessità, dopo aver perso tutto. “I veri eroi sono loro“, conclude con voce commossa.

Lasciati i Balcani e la Turchia, la bicicletta gli permette di riattraversare l’Iran con occhi diversi rispetto al suo precedente viaggio in autostop. La lentezza della pedalata gli fa “assaporare il paese” in un modo nuovo, scoprendo una generosità che va oltre ogni aspettativa. Un giorno, dopo aver pedalato per otto giorni nel deserto, una ragazza lo vede, improponibile e sporco, e lo invita a casa sua, mettendo a repentaglio la sua stessa sicurezza. Quando il padre sta per scoprirli, Claudio è costretto a una fuga precipitosa, pedalando per 174 km in un solo giorno per allontanarsi il più possibile: il suo record personale, con la bici carica.

Ma la prova più estrema, fisica e psicologica, arriva in Afghanistan. Lo descrive come “il primo paese della mia vita dove non conoscevo nessuno che c’era stato”. È un’esperienza brutale: 41 gradi, 14 litri d’acqua al giorno per sopravvivere, un paese senza sorrisi dove la curiosità costante della gente annulla ogni privacy. “Io ho trascorso ogni istante della giornata con qualcuno che mi seguiva”, racconta. Lo pedinavano, lo guardavano mentre mangiava e dormiva, lo fotografavano. Al terzo giorno, è sull’orlo di cedere: “Io così non ce la faccio più, devo mollare”. È l’unico momento in dieci anni di viaggi in cui ha sentito un vero sconforto. Ma è proprio lì che la lezione più importante del viaggio si manifesta: sforzarsi di praticare empatia, di capire le ragioni di un popolo che ha conosciuto solo guerra e isolamento, e in cui l’unica cosa ad essersi “evoluta” sono le armi.

 La lezione finale: la responsabilità di chi pedala

La testimonianza di Claudio Piani è un manifesto per un cicloturismo consapevole. Ci ricorda che il privilegio di viaggiare per scelta comporta una grande responsabilità. Invita a “viaggiare in punta di piedi“, o meglio, in punta di pedali, con rispetto per culture che hanno il diritto di essere diverse da noi, senza trasformare il mondo “in un circo dove se paghi puoi avere quello che vuoi”.

In un’epoca di viaggi sempre più veloci, la bicicletta ci riporta a una dimensione umana, lenta e profonda. Ci insegna che non esiste un vero viaggio senza accoglienza: è la comunità degli “stanziali“, di chi resta e apre la porta di casa, che dà senso e rende possibile l’impresa dei “nomadi” in sella. È un patto di fiducia che ci invita a muoverci nel mondo non solo con una bicicletta, ma con gratitudine, rispetto e una profonda, instancabile curiosità verso l’altro.

Le linee del desiderio

A chi non è mai capitato di notare il solco scavato dal continuo andirivieni di passanti sul tappeto erboso di un’aiuola cittadina, un tracciato non previsto dal progettista ma che evidentemente risulta un percorso logico ed istintivo per la maggioranza dei cittadini? Ebbene quella è una “linea del desiderio”, un itinerario desiderabile spontaneamente tracciato delle persone.

Sono situazioni che rappresentano scorciatoie, vie maggiormente dirette od istintive che conducono a una meta: può essere l’aiuola attraversata dal pedone, ma anche il tratto percorso da un ciclista sul marciapiede o controsenso. Nonostante siano vietati, sappiamo bene quanto siano frequenti questi comportamenti, indotti anche da politiche di mobilità che hanno relegato tutti gli spostamenti non motorizzati in zone marginali, sconnesse e non curate.

Infatti, il design delle nostre città impone spesso percorsi frammentati, su marciapiedi con angoli retti, con ostacoli o dimensioni ristrette che non permettono il camminamento fianco a fianco, o che rendono il tragitto più lungo del necessario e magari esposto al sole (o non illuminato alla notte) in zone sgradevoli o poco attrattive.

Tanto da sfociare, poi, in casi non solo vietati ma anche molto pericolosi. Emblematica, in questo senso, la notizia a Modena di decine persone (non solo studenti) che tutti i giorni attraversano Viale Italia in corrispondenza delle strutture scolastiche e sportive che insistono sui due lati della strada ad alto scorrimento. Una volta esploso il problema, per adesso si è provveduto a mettere una barriera metallica: è un palliativo buono per l’urgenza, ma è insensato chiedere a tanti ragazzi allungare il percorso tutti i giorni di qualche centinaio di metri per raggiungere le prime strisce pedonali. Per il futuro, qui e negli altri casi, è necessario trovare soluzioni per dare priorità a pedoni e ciclisti e ristabilire i collegamenti desiderati se si vuole rendere la città più vivibile e fruibile.

Ad esempio, proprio per accorciare i percorsi ciclabili e renderli più naturali, in quasi tutte le nazioni europee è diffusissimo il “senso unico eccetto bici” che rende pedalabile nei due sensi le strade a senso unico per le auto. Un provvedimento che tra l’altro ha dappertutto aumentato la sicurezza di chi pedala.

La mobilità delle nostre città va ripensata, e nel farlo dovremmo ispirarci ad una campagna canadese di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale, in cui compaiono due bambini in strada con la bici e questo messaggio “loro non sono in mezzo alla tua via, sei tu che stai guidando dove loro vivono”.

Giornate del cicloturismo: FIAB Emilia-Romagna chiede di promuovere e gestire in modo integrato la rete ciclabile regionale

Le giornate nazionali del cicloturismo organizzate da FIAB in programma il 14 e 15 giugno vogliono promuovere il turismo in bicicletta come forma di vacanza attiva, per viaggiare in armonia con l’ambiente e la natura, nonché come volano economico per i territori.

Una tendenza in forte crescita, come tutto il comparto del turismo outdoor, secondo quanto rilevato dall’ultimo Rapporto “Viaggiare con la bici 2025”, giunto alla quinta edizione e realizzato da Isnart-Unioncamere per l’Osservatorio sull’Economia del Turismo delle Camere di Commercio in collaborazione con Legambiente: nel 2024, il cicloturismo italiano ha fatto registrare un boom sia in termini di presenze, stimate in 89 milioni (+54% sul 2023), che di impatto economico, arrivato a quasi 9,8 miliardi di euro.

Il turismo in bicicletta si conferma una delle principali tendenze della “nuova domanda” di turismo in Italia, rappresentando più del 10% del totale dei turisti in Italia, di cui circa la metà millenial (tra i 30 e i 44 anni d’età). Un dato che evidenzia non solo la sostenibilità ambientale del cicloturismo, ma anche il suo alto valore economico per i territori.

Per pedalare in sicurezza e per promuovere questo modo di fare turismo, sono necessarie le infrastrutture dedicate, nonché una loro gestione e manutenzione puntuale e finanziata.

Per questo motivo, come coordinamento delle associazioni FIAB emiliano romagnole rinnoviamo alcune delle nostre richieste già avanzate in occasione delle recenti elezioni regionali:

  1. Individuare e promuovere una rete ciclabile regionale che comprenda gli itinerari principali e di grande richiamo che passano nella nostra Regione (Ciclovia del Sole, Ciclovia del Po, Ciclovia Francigena, Ciclovia Adriatica) e progettare una ciclovia lungo la via Emilia insieme ai collegamenti locali come la Bologna – Ravenna, e Bologna – Ferrara
  2. Individuare un Ente Gestore delle ciclovie regionali, con il compito di occuparsi della manutenzione ordinaria e straordinaria lungo tutta la tratta, indipendentemente dai Comuni attraversati.

Anche su Modena abbiamo alcuni assi strategici come la Ciclovia del Secchia e la Ciclovia del Panaro che insieme ad altri tracciati e cammini come la Via Vandelli o la Romea Germanica Imperiale possono costituire un forte volano di attrazione e rigenerazione per le tante località attraversate.

Solo con una struttura stabile, un piano integrato di promozione e manutenzione, una mappatura chiara e fruibile ed una segnaletica omogenea si possono garantire continuità infrastrutturale, sicurezza per gli utenti e attrattività per il turismo slow e sostenibile. Queste solide condizioni di base potranno inoltre dare certezze anche ai privati per sviluppare nuovi servizi di ospitalità e supporto diffuso ai cicloturisti.